A dicembre 2019 era apparso su tutti i giornali che la Cassazione aveva ritenuto ammissibile la coltivazione domestica di stupefacenti. Alcuni giornali, come “Il sole 24 ore”, parlavano addirittura di depenalizzazione. In realtà, leggendo le motivazioni della stessa sentenza pubblicate in data 16 aprile 2020 non è proprio così. Le Sezioni Unite hanno sciolto i dubbi relativi alla rilevanza penale dell’attività ove svolta in forma domestica e finalizzata al soddisfacimento esclusivo delle esigenze di consumo personale[1].
Principio di diritto
“Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.
Vicende processuali
Con sentenza del 13 marzo 2013, il Tribunale di Torre Annunziata dichiarava l’imputato colpevole, tra gli altri, del reato di cui all’art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309/1990[2]. In particolare, secondo quanto descritto al capo c) di imputazione, la condotta avrebbe avuto ad oggetto la coltivazione per finalità commerciali di due piante di marijuana dell’altezza, rispettivamente, di metri 1 e 1,15.
Successivamente, la Corte d’Appello di Napoli, in data 28 febbraio 2018, confermava la colpevolezza dell’imputato. Infatti, l’offensività della condotta non avrebbe potuto ritenersi esclusa semplicemente in considerazione del mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali; pur in assenza di principio attivo immediatamente rinvenibile, lo stato avanzato di crescita delle piante consentiva di desumerne l’idoneità a rendere quantità significative di prodotto, una volta ultimato il processo di sviluppo fisiologico.
Sul punto, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata. Nello specifico, l’imputato eccepiva l’erronea applicazione dell’art. 73 D.P.R. n. 309/1990, per non aver la Corte effettivamente accertato l’attitudine delle piante a produrre effetti droganti. Questi ultimi, infatti, non potrebbero validamente desumersi dalla mera presenza di ramificazioni, essendo il principio attivo contenuto nelle infiorescenze. Il ricorrente eccepiva, altresì, un’errata interpretazione delle prove acquisite in giudizio; dalle stesse non risultava in alcun modo desumibile che le piante avessero raggiunto un apprezzabile grado di maturazione.
Contrasti interpretativi sulla nozione giuridica di “coltivazione”
Superato il vaglio di ammissibilità, il ricorso veniva assegnato alla Terza Sezione della Corte di Cassazione. Quest’ultima, tuttavia, ravvisando la non-univocità dei precedenti giurisprudenziali in merito al concetto di “coltivazione”, decideva di sottoporre la questione al vaglio delle Sezioni Unite.
Nell’ordinanza di rimessione, la Terza Sezione evidenzia i due indirizzi interpretativi delineatisi in materia.
Primo indirizzo
Stando ad un primo orientamento, il reato di coltivazione di stupefacenti sarebbe configurabile soltanto laddove la pianta coltivata sia conforme al tipo botanico vietato e abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante. In aggiunta, l’attività di coltivazione deve risultare in concreto idonea a ledere la salute pubblica e a favorire la circolazione della droga, alimentandone il mercato[3].
Secondo indirizzo
Secondo un differente indirizzo interpretativo, invece, l’offensività della condotta risiederebbe nella mera idoneità (anche solo potenziale) a produrre la sostanza per il consumo. Totalmente irrilevanti, pertanto, la quantità di principio attivo immediatamente ricavabile, la conformità della pianta al tipo botanico vietato e l’attitudine della stessa a concretamente ed effettivamente produrre la sostanza stupefacente[4].
Le stesse Sezioni Unite[5], peraltro, si erano già pronunciate in materia con le sentenze gemelle del 2008, nel senso della rilevanza penale di “qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale”.
La Corte Costituzionale
Sul tema è intervenuta anche la Corte Costituzionale; dubbia, infatti, è risultata la legittimità della rilevanza penale della coltivazione di cannabis, per esclusivo impiego personale della sostanza (sent. n. 109/2016) [6]. Due i profili sottoposti all’attenzione della Consulta. Il primo relativo alla disparità di trattamento rispetto all’attività di detenzione[7], il secondo attinente alla necessaria offensività della condotta.
Il primo profilo
La Corte ha dichiarato non fondata nel merito la prima questione. La detenzione, infatti, così come l’acquisto o l’importazione per uso personale, rappresenterebbe una condotta collegata in via diretta ed immediata al consumo della sostanza. Viceversa, nel caso della coltivazione, mancherebbe quel nesso di immediatezza con l’uso personale, con ciò giustificando l’adozione di una sanzione più severa. Peraltro, è stato osservato che, mentre il quantitativo di stupefacente detenuto può essere determinato con certezza, la coltivazione non consentirebbe valutazioni aprioristiche sufficientemente affidabili. Maggiormente elevato, dunque, il grado di pericolosità di tale ultima condotta, in quanto destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi di stupefacente disponibili sul mercato.
Il secondo profilo
Quanto al principio di offensività, invece, la Corte ricorda che esso opera su due piani: l’offensività in astratto e quella in concreto. Nel primo caso, si tratterà di un vincolo per il legislatore; quest’ultimo dovrà limitare la repressione ai soli fatti astrattamente offensivi di interessi giuridici meritevoli di tutela. Nel secondo, consisterà in un criterio interpretativo-applicativo di cui dovrà avvalersi il giudice comune, tenuto a verificare se un dato comportamento abbia effettivamente assunto un’attitudine lesiva.
Le conclusioni della Consulta
Ciò premesso, la Corte ha chiarito che, nonostante rientri nella discrezionalità del legislatore scegliere forme di tutela anticipate (reato di pericolo presunto), rimane comunque imprescindibile una valutazione circa l’offensività della condotta concretamente posta in essere. Infatti, in assenza di un’effettiva lesione ad uno dei beni protetti dall’ordinamento giuridico, si verrebbe a configurare un reato c.d. impossibile. L’identificazione della nozione di coltivazione, allora, diventerebbe una questione meramente interpretativa, rimessa al giudice di merito. Detto altrimenti, competerà a quest’ultimo verificare “se la singola condotta di coltivazione non autorizzata, contestata all’agente, risulti assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e, dunque, in concreto inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilità”.
Il ragionamento delle Sezioni Unite
Perno centrale della riflessione delle Sezioni Unite è proprio la distinzione fra le categorie della tipicità e offensività, in astratto e in concreto, del reato.
La tipicità del fatto
Gli elementi della conformità della pianta al tipo botanico vietato e della sua attitudine a produrre sostanza stupefacente sarebbero da ricondursi al piano della tipicità, intesa come riconducibilità della fattispecie concreta al “tipo” disciplinato in astratto dalla norma incriminatrice. Questi requisiti dovrebbero, quindi, correttamente considerarsi come imprescindibili ai fini della configurabilità del reato.
Rientrerebbe, inoltre, nella sfera di tipicità del fatto anche l’individuazione dell’ambito di applicazione della tutela penale e, in particolare, la distinzione fra “coltivazione imprenditoriale” e “coltivazione domestica”. Sul punto, dall’analisi dell’impianto normativo, emerge con chiarezza la volontà del legislatore di equiparare qualsiasi attività di coltivazione non autorizzata alla produzione o fabbricazione di sostanze stupefacenti. In quest’ottica, l’eventuale destinazione ad uso personale non potrebbe assumere alcuna efficacia scriminante. Tuttavia, pur non potendosi assimilare in alcun modo la coltivazione domestica alla detenzione e al regime giuridico di quest’ultima[8], essa, secondo un’interpretazione restrittiva della fattispecie penale, potrebbe risultare non riconducibile neppure entro la definizione di coltivazione in senso lato, per carenza dei suoi elementi tipici.
Il parametro da impiegare per definire quando una coltivazione possa ritenersi penalmente rilevante è quello della produttività potenziale. La coltivazione domestica, dunque, intrapresa con il solo scopo di soddisfare le esigenze di consumo personale, può definirsi di minime dimensioni ove insuscettibile di aumentare in modo significativo la provvista di stupefacenti sul mercato. La sua rilevanza penale, pertanto, potrà ritenersi esclusa se l’attività di coltivazione risulti connotata da una produttività prevedibile come assolutamente modesta[9].
L’offensività della condotta
L’irrilevanza penale dell’attività di coltivazione può venire in rilievo anche sotto il diverso profilo dell’offensività in concreto.
Sul punto, la Suprema Corte ha fatto propri i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale. In sentenza, infatti, si legge che “la ricostruzione sistematica del reato di coltivazione di stupefacenti in termini di pericolo presunto trova adeguato temperamento nella valorizzazione dell’offensività in concreto, quale criterio interpretativo affidato al giudice, il quale è tenuto a verificare che il fatto abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene-interesse tutelato”.
Conseguentemente, la configurabilità del reato dovrà essere esclusa, ogni qual volta il giudice verifichi ex post che la coltivazione (industriale o domestica) non ha prodotto alcuna sostanza realmente idonea a produrre un effetto stupefacente concretamente rilevabile[10].
Conclusioni
La Cassazione ha inteso operare una graduazione della risposta punitiva rispetto all’attività di coltivazione di piante stupefacenti, sulla base delle diverse accezioni che la stessa può assumere nel caso concreto. In particolare, per effetto della decisione delle Sezioni Unite e al ricorrere di tutte le condizioni ivi esplicate, dovranno considerarsi lecite tanto la coltivazione domestica a fini di autoconsumo (per mancanza di tipicità della condotta), quanto la coltivazione industriale che non sia effettivamente lesiva di beni protetti dall’ordinamento (per difetto del principio di offensività in concreto).
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Note
[1] Scarica il testo integrale della sentenza
[2] L’art. 73 recita: “Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, […], è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000. […]”.
[3] Vedi, ex plurimis, Cass. Pen., Sez. III, 22 febbraio 2017, n. 36037; Cass. Pen., Sez. VI, 17 febbraio 2016, n. 8058 o Cass. Pen., Sez. VI, 10 novembre 2015, n. 5254)
[4] Tra le altre, Cass. Pen., Sez. VI, 28 aprile 2017; Cass. Pen., Sez. VI, 22 novembre 2016, n. 52547.
[5] Il riferimento è a Cass. Pen., Sez. Un., 24 aprile – 10 luglio 2008, n. 28605.
[6] Scarica qui il testo della sentenza delle Corte Costituzionale n. 109/2016
[7] La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata con riferimento all’art. 75 D.P.R. 309/1990, che non includerebbe tra le condotte punibili con sola sanzione amministrativa anche quella di coltivazione per mero uso personale.
[8] La Corte chiarisce che “la coltivazione (ndr: domestica) non può essere ritenuta una sottospecie della detenzione, come tale punibile solo in quanto vi sia stata effettiva produzione di sostanza dotata di efficacia drogante, perché una tale interpretazione, oltre a scontrarsi con il tenore letterale di una pluralità di disposizioni normative, si pone in rotta di collisione con la chiara scelta del legislatore di punire ogni forma di produzione di sostanze stupefacenti, se necessario, anticipando la tutela al momento in cui si manifesta un pericolo ragionevolmente presunto per la salute”.
[9] Questo parametro, per poter operare con sufficiente certezza, deve essere ancorato a presupposti di tipo oggettivo, quali la minima dimensione della coltivazione, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero delle piante, ecc… Devono, dunque, essere presenti tutti quegli indici che consentono di escludere con certezza l’inserimento dell’attività entro il mercato degli stupefacenti.
[10] Nello specifico, potranno rilevare ai fini dell’esclusione della punibilità: l’inadeguata modalità di coltivazione, da cui possa evincersi che la pianta non sarà in grado di realizzare il prodotto finale o l’eventuale non conformità del raccolto al normale tipo botanico (principio attivo troppo povero per la utile destinazione all’uso di droga).