La locuzione anglosassone “Revenge porn” (vendetta pornografica), indica quella pratica consistente nel diffondere foto o video a sfondo sessuale, senza il consenso della persona interessata. Questa espressione si è diffusa in Italia a seguito della tragica vicenda che ha portato, nel 2016, al suicidio di Tiziana Cantone, dopo la diffusione di alcuni video (poi diventati virali) che la ritraevano mentre in atteggiamenti intimi con il proprio partner[1].
Il Codice rosso e l’introduzione dell’art. 612 ter c.p.
Tiziana Cantone non è stata la sola vittima di revenge porn in Italia; negli ultimi anni, purtroppo, questo fenomeno è risultato in crescita. Non è un caso che la legge 19 luglio 2019, n. 69, meglio nota come “Codice rosso”, sia intervenuta per sanzionare specificatamente la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti. Il nuovo articolo 612 ter c.p. punisce espressamente la divulgazione di quei contenuti destinati a rimanere privati, avvenuta senza il consenso della persona rappresentata. La condotta della diffusione può avvenire per mano di chi abbia realizzato o sottratto i contenuti medesimi; ovvero di chi li abbia, a sua volta, ricevuti o acquisiti da terzi. La pena prevista è quella della reclusione da uno a sei anni e della multa da € 5.000 ad € 15.000. (Per approfondimento leggi qui)
Un esempio pratico di revenge porn: il drammatico caso della maestra d’asilo nel torinese
Tra i casi di revenge porn che, ultimamente, hanno fatto parlare di più, c’è sicuramente quello accaduto nel torinese. L’ex fidanzato di una maestra d’asilo condivide un suo video hard e alcune foto intime sulla chat del calcetto e per lei inizia l’incubo. Non solo dover fronteggiare la diffusione non autorizzata di contenuti strettamente privati, ma anche il cosiddetto “victim blaming”[2] o la vittimizzazione secondaria.
Il comportamento del compagno
Stando alle dichiarazioni della donna, l’ex fidanzato si sarebbe sentito autorizzato a diffondere quelle immagini, essendosi la loro relazione basata esclusivamente su di un’attrazione fisica. L’uomo l’avrebbe, altresì, minacciata di diffondere ulteriormente il video ove lei l’avesse denunciato.
La poca solidarietà femminile
Ma non finisce qui. Nessuna solidarietà per la maestra neppure sul versante femminile. La madre di una bambina dell’asilo, venuta a conoscenza del video dal marito (membro della chat del calcetto), sembrerebbe aver trasmesso, a sua volta, quel video ad altre mamme e, non ancora contenta, avrebbe chiesto un incontro alla maestra, per avvertirla di non procedere con una denuncia se non voleva che la direttrice venisse a conoscenza dell’accaduto. Tale mamma avrebbe anche chiesto alla donna di interrompere simili pratiche sconvenienti, in quanto altrimenti si sarebbe sentita costretta a ritirare la figlia dall’asilo.
La reazione della scuola
La scuola apprende in ogni caso della vicenda. La maestra riferisce di aver subito varie pressioni psicologiche affinché rassegnasse le dimissioni e di aver, poi, ricevuto anche una contestazione disciplinare. Non ci sarebbe stata, dunque, nessuna vittima di un comportamento altamente lesivo della propria sfera più intima, ma soltanto una maestra che avrebbe assunto un comportamento irresponsabile, così violando il decoro della scuola e scatenando il malcontento dei genitori.
Le vittime di revenge porn e le forti conseguenze sul piano psicologico
Da questo episodio emerge chiaramente il forte disagio psicologico a cui viene sottoposta una vittima di revenge porn nel dover affrontare, non solo l’accaduto, ma anche tutto l’iter successivo e necessario per far valere i propri diritti e riappropriarsi della propria intimità.
Per comprendere la gravità delle conseguenze che le vittime di revenge porn possono subire a livello psicologico, occorre partire dall’analisi del gesto di inviare le proprie foto intime a qualcuno. Nonostante possa apparire superficiale e privo di valore, un simile gesto racchiude, invece, la speranza di potersi mostrare completamente nudi davanti a qualcuno, ove per “nudo” intendiamo qualcosa in più del semplice farsi vedere senza vestiti. Si comprende, allora, che la delusione da dover affrontare nel momento in cui le proprie aspettative di fiducia vengano profondamente tradite è particolarmente forte. La vittima, infatti, ottiene la conferma che è sempre meglio rimanere corazzati, piuttosto che mostrare agli altri la propria parte più indifesa. Nei casi più gravi, questa delusione può sfociare in un vero e proprio disturbo psicologico, tra cui quello depressivo maggiore (DDM)[3].
Le difficoltà nell’affrontare un processo
La gravità di una simile condizione rende evidente l’enorme difficoltà, se non addirittura l’impossibilità, di affrontare un processo senza adeguati sostegni legali, ma anche psicologici.
Avviare un procedimento giudiziario costringe la vittima a rivivere il trauma subito per un periodo di tempo prolungato, oltre che ad esporre e divulgare, questa volta in maniera “volontaria”, proprio quel materiale che è il frutto principale della sua sofferenza. Infatti, nel momento in cui la vittima decide di denunciare il fatto, essa è costretta ad allegare alla propria querela proprio quei video o quelle foto attraverso cui il reato è stato commesso. Questo al fine di consentire alle Autorità di accertarne la responsabilità penale. Detto altrimenti, nel momento in cui si decide di avviare un procedimento penale, quei contenuti inevitabilmente dovranno essere visionati anche da: vari avvocati delle parti; dagli agenti di polizia giudiziaria a cui saranno affidate le indagini; da eventuali consulenti tecnici; dal pubblico ministero e dall’organo giudicante. Il tutto senza considerare il rischio di una ulteriore indebita diffusione in ambiente extra giudiziario.
Conclusioni
La vittima di revenge porn, pertanto, laddove intenda agire giudizialmente per la tutela dei propri diritti, è costretta ad esporre sé stessa ad eventi che, di fatto, sono analoghi a quelli per i quali essa stessa richiede protezione all’interno del procedimento penale avviato. La forte contradizione di uno strumento che si pone quale unico mezzo di tutela ma che, nella pratica, obbliga la persona richiedente un aiuto, non solo a ripercorrere il profondo trauma subito, riaccendendovi sopra i riflettori, ma anche a contribuire alla sua implementazione, può spingere le vittime di queste gravi vessazioni a richiudersi in sé stesse e ad emarginarsi dalla compagine sociale. Si ritiene pertanto fondamentale, per le vittime di revenge porn, affidarsi a professionisti in grado di fornire il supporto adeguato.
Note
[1] Sul punto, si segnala che, dopo quattro anni dalla scomparsa della ragazza, la Procura ha deciso di riaprire le indagini. Sarebbe, infatti, emerso che il cellulare e l’Ipad di Tiziana, sequestrati il giorno stesso del ritrovamento del corpo, furono resettati, così eliminando definitivamente qualsiasi attività svolta dalla ragazza su quei dispositivi, compresa la messaggistica Whatsapp.
[2] Con quest’espressione, che si potrebbe tradurre come “colpevolizzazione della vittima”, si indica la tendenza a ritenere la vittima di un reato come totalmente o parzialmente responsabile dell’accaduto. La colpa del fatto viene, quindi, spostata dall’aggressore alla vittima o, quantomeno, suddivisa fra gli stessi in parti uguali. Con riferimento specifico al revenge porn, si sente spesso parlare anche di “slut shaming”. La locuzione indica quell’atteggiamento diretto a far sentire la donna colpevole per il fatto di aver assunto determinati comportamenti o provato determinati desideri sessuali. Questi ultimi considerati ancora contrari alle aspettative tradizionali del “socialmente consentito”.
[3] Il DDM si esprime attraverso sintomi che possono essere di natura emotiva (es. estrema tristezza, perdita di interessi o apatia costante), fisica (es. alterazione dell’appetito o del sonno, agitazione psico-motoria, riduzione dell’energia) o cognitiva (es. deficit di attenzione, concentrazione, memoria o costante pensiero negativo).