La violenza sessuale rientra tra i reati che personalmente ritengo più deplorevoli. Attiene alla sfera più intima di una persona e non si può pensare che la violenza sessuale riguardi solo l’aspetto fisico. La maggior parte dei danni e soprattutto il maggior dolore è interno e riguarda più l’anima di una persona che il suo fisico. Con alcuni casi di cronaca come il caso del tribunale di Livorno ed il caso del tribunale di Tempio Pausania mi sono chiesto se effettivamente il nostro sistema giudiziario sia adeguato per poter affrontare situazioni del genere.
I casi di violenza sessuale che mi hanno fatto pensare.
Il caso di Livorno riguarda una donna che aveva accusato un carabiniere di violenza sessuale. il Giudice donna ha assolto l’imputato perché non ha rinvenuto nelle prove fornite ed acquisite in dibattimento la violenza o la minaccia esercitata dal carabiniere nel chiedere ed ottenere le prestazioni sessuali da parte della donna.
Il caso della Sardegna riguarda due ragazze che uscite dalla discoteca insieme a 4 ragazzi si sono recate in spiaggia e da li sarebbe avvenuto uno stupro di gruppo in acqua. In questo caso il Pubblico Ministero ha chiesto l’archiviazione e ad oggi il Gip sta decidendo se archiviare o meno.
Questi casi mi hanno fatto pensare non tanto sui fatti descritti dai media, ma dalla difficoltà che in generale una persona violentata può avere nel dimostrare la violenza subita. Ovviamente non parlo di quei casi dove ci sono delle risultanze mediche che attestano la violenza, o di quelle dove viene denunciata una violenza sessuale solo per scopi secondari, ma di tutte quelle situazioni borderline nelle quali l’unico elemento di discrimine tra un rapporto lecito o meno è il consenso dell’altra persona.
Il problema del consenso nel reato di violenza sessuale.
I casi sopra indicati sono (per quanto io abbia potuto capire dai media) casi limite dove solo le persone coinvolte possono conoscere la verità e non mi permetto di commentare o giudicare i fatti. Il problema è che, in entrambe i casi, si è sollevata una questione mediatica che ha urlato allo scandalo imputando tali decisioni dei magistrati ad una cultura maschilista e centrata sulla responsabilità della donna nell’aver accettato il rischio di porsi in una situazione pericolosa.
Nulla di più sbagliato! Una persona non può mai e per nessun motivo essere ritenuta responsabile di aver subito una violenza.
Il vero problema riguarda l’accertamento giudiziale del consenso nel rapporto sessuale. Il consenso è l’unico elemento che fa mutare un rapporto sessuale consenziente in una violenza sessuale. Questo deve necessariamente perdurare per tutta la durata del rapporto ed è pacifico che un soggetto in uno stato quasi privo di sensi non potrà mai prestare un consenso valido. Il consenso in un rapporto sessuale non deve ad oggi essere dichiarato ma può anche essere dedotto da fatti concludenti ed implicito. È il diniego del consenso che in realtà deve essere esplicito. Il problema è riuscire, in situazioni intime e dove non ci sono testimoni, a dimostrare a terzi (Giudice o Pm) che si era manifestato il proprio dissenso in modo inequivocabile ed in modo tale che qualunque persona di media cultura lo avrebbe potuto comprendere.
L’inadeguatezza del sistema giudiziario.
Ritengo che il nostro sistema giudiziario non sia adeguato ad affrontare questa specifica problematica. Infatti il problema non riguarda tanto l’aspetto normativo che più di tanto non può essere sbilanciato in favore della presunta vittima senza poi andare a corrodere le garanzie costituzionali del presunto reo. Per esempio non si potrà mai avere una norma che condanna un soggetto per violenza sessuale solo con la dichiarazione della presunta persona offesa. È sempre necessaria una prova che leghi la dichiarazione ad elementi oggettivi.
Questo di base crea un problema insormontabile proprio perché il consenso non potrà mai essere ancorato ad elementi certi ed oggettivi. La dimostrazione a terzi di questo elemento può essere effettuata solo per fatti concludenti. Questi ultimi poi non possono essere valutati a mente fredda, ma bisognerebbe calarsi nella situazione e soprattutto nella vittima. Infatti ci sono persone che di fronte ad una violenza, ad atti sessuali o anche semplicemente nel sentirsi mani altrui sul proprio corpo, reagiscono in modo violento, altre che si paralizzano altre ancora che per paura accettano di subire. Le reazioni nell’immediatezza del fatto e/o successivamente possono essere profondamente differenti e non si può generalizzare in modo banale o populistico.
Di certo non si può accettare quanto sembrerebbe essere accaduto alle ragazze in Sardegna. Ovvero che il Pubblico Ministero avrebbe sentito le presunte persone offese per 10 ore consecutive[1]. Questa è una tortura psicologica non indifferente. Una persona che, a prescindere dall’accertamento successivo del fatto reato, è comunque in uno stato di sofferenza, di intima vergona, di rabbia e che inevitabilmente pensa che avrebbe potuto fare altro per non arrivare a subire quello che è successo. Questa è la vittimizzazione secondaria e la dimostrazione che i nostri organi giurisdizionali non sono preparati ad affrontare situazioni del genere.
Le mie considerazioni.
Ritengo che in situazioni del genere si dovrebbero prevedere dei protocolli specifici. La mente umana è complessa, soprattutto quando vengono toccati aspetti così intimi e profondi. Le ragazze dei fatti accaduti in Sardegna, dopo 10 ore di interrogatorio, avrebbero potuto dire la qualunque. Sicuramente il pubblico ministero voleva, in assoluta buona fede, avere maggiori informazioni possibili a caldo, ma è una azione corretta? Non solo, spesso può accadere che con il passare del tempo tornino alla mente altri particolari, altri elementi. Così come invece può succedere che con il passare del tempo i ricordi reali vengano arricchiti da situazioni di cui la mente si autoconvince.
Quindi una delle soluzioni che può aiutare (per quanto possibile) gli organi giurisdizionali, sarebbe affiancare da subito alle vittime o presunte tali degli psicologi che possano anche aiutare la persona a rendere i ricordi più chiari più in fretta e soprattutto ad evitare distorsioni con il passare del tempo. Prevedere magari che lo psicologo possa anche partecipare all’escussione della persona offesa al fine di fornire una assistenza psicologica costante. Inoltre sarebbe opportuno prevedere per i magistrati ed operanti delle forze dell’ordine delle competenze specifiche da acquisire mediante corsi specifici, per evitare di perpetrare una ulteriore sofferenza con la vittimizzazione secondaria.
Conclusioni.
Purtroppo in situazioni come queste ma non solo, la vittima deve necessariamente farsi assistere immediatamente da diverse figure professionali. Anche da un avvocato penalista. Si potrebbe pensare che una vittima nel momento in cui si rivolge subito ad un avvocato sia perché vuole “giocare sporco”, ma non è così. Prepararsi ad affrontare una situazione non significa dover mentire. Semplicemente sapere cosa si andrà ad affrontare ed essere preparati su questo, significa avere pensieri in meno e potersi concentrare di più sulla ricostruzione effettiva dei fatti. Una cosa è certa, ritengo che reati del genere, soprattutto quelli che si trovano sulla linea di confine tra reato e non reato, non si combattano con pene esemplari o con altri strumenti coercitivi, ma con una educazione mirata al rispetto dell’altra persona.
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Note.
[1] Così è stato dichiarato dalle stesse persone offese durante la trasmissione L’Arena del 6 ottobre 2021.