Quali sono i termini per proporre appello avverso una sentenza del Giudice di Pace penale? Il procedimento penale dinanzi al Giudice di Pace trova una specifica disciplina nel D.lgs. 28 agosto 2000, n. 274. La ratio di tale disciplina è quella di attribuire alla competenza di questo giudice i cosiddetti “reati bagatellari”, con l’obiettivo di deflazionare quanto più possibile l’apparato giudiziario. Pertanto, vengono rimessi alla competenza del Giudice di Pace quei reati connotati da un minor disvalore sociale, per i quali si rende possibile accertare la responsabilità penale nell’ambito di un rito semplificato. La normativa rimanda, in ogni caso, a quanto disposto nel codice di procedura penale per tutto quanto non espressamente ivi previsto e disciplinato. (Per un approfondimento sull’atto di appello in generale cliccare qui)
Quando l’imputato può proporre appello avverso le sentenze del Giudice di pace
L’art. 37 D.lgs. 274/2000 disciplina l’impugnazione dell’imputato (per il tramite dell’ avvocato), sancendo la libera proposizione dell’appello avverso le sentenze di condanna che comminano una pena diversa da quella pecuniaria. Viceversa, se la sentenza è applicativa di una pena pecuniaria, la facoltà dell’imputato di proporre appello sembrerebbe subordinata alla contestuale impugnazione del “capo relativo alla condanna, anche generica, al risarcimento del danno”.
Dovrebbe, dunque, escludersi la piena possibilità di richiedere un secondo giudizio di merito avverso le decisioni del giudice di pace, risultando liberamente appellabili soltanto le sentenze che condannano alle cosiddette pene paradetentive. Infatti, le condanne alla pena pecuniaria sarebbero appellabili soltanto ove realmente afflittive, ovvero quando, nell’accertare la responsabilità penale, statuiscano, altresì, l’obbligo di risarcire il danno cagionato alla vittima del reato. Una scelta così fortemente restrittiva troverebbe la sua giustificazione nell’esigenza di massima semplificazione del rito; proprio questa sarebbe la ratio ispiratrice dello stesso intervento legislativo che disciplina l’intero procedimento dinanzi al giudice di pace. Sul punto è intervenuta anche la Corte costituzionale, con sentenza del 19 dicembre 2018, n. 426 (inserire testo).
La norma non è, però, scevra da contrasti interpretativi. In particolare, risulta controverso se l’appello carente di un motivo specifico in ordine alle statuizioni civili sul risarcimento del danno possa o meno ritenersi ammissibile.
Quali sono gli orientamenti giurisprudenziali in tema di appello dell’imputato avverso la sentenza del Giudice di Pace penale
Sul punto si scontrano due filoni interpretativi, che argomentano diversamente l’applicabilità del disposto di cui all’art. 574, comma 4, c.p.p. al procedimento dinanzi al giudice di pace. La norma richiamata attribuisce una portata estensiva all’impugnazione delle sentenze penali di condanna, che travolgerebbe altresì tutte le statuizioni civili da essa dipendenti.
Il primo orientamento, minoritario, si incentra sul principio di specialità del procedimento dinanzi al giudice di pace; conseguentemente, esso nega l’applicabilità di qualsiasi norma codicistica a tale procedimento, fatte salve le sole ipotesi di lacuna legislativa. Giudice di pace penale e tribunale ordinario, infatti, vengono considerati come sistemi strutturalmente distinti, escludendo qualsiasi forma di contaminazione non espressamente voluta (così, Cass. Pen., Sez. II, 17 aprile 2015, n. 31190).
Totalmente opposto l’orientamento maggioritario, il quale esprime, invece, la necessità che il D.lgs. 274/2000 si coordini con quanto disposto ex art. 574, comma 4, c.p.p. Conseguentemente, di regola, viene ritenuto pienamente ammissibile “l’appello proposto dall’imputato avverso la sentenza del giudice di pace di condanna alla pena pecuniaria, ancorché non sia stato impugnato il capo relativo alla condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile”. Infatti, ai sensi dell’art. 574, comma 4, c.p.p. “l’impugnazione proposta avverso i punti della sentenza riguardanti la responsabilità dell’imputato estende i suoi effetti agli altri punti che dipendano dai primi, fra i quali sono ricompresi quelli concernenti il risarcimento del danno che ha quale necessario presupposto l’affermazione della responsabilità penale” (Cass. Pen., Sez. V, 10 aprile 2020, n. 11917).
Quali sono i termini per impugnare le sentenze del giudice di pace penale
Come noto, secondo le regole generali in materia di impugnazioni, il termine per una valida proposizione inizia a decorrere dalla data del deposito della sentenza (o di altra attività equipollente).
Ai sensi dell’art. 32 del D.lgs. 274/2000, il giudice di pace penale redige la motivazione della sentenza in forma abbreviata e provvede, alternativamente, a dettarla direttamente a verbale o a depositarla entro il termine di quindici giorni dalla lettura del dispositivo in aula. Questo significa che il giudice di pace non è ammesso alla fissazione di un termine diverso da quello ordinario per il deposito della sentenza.
Che cosa succede, però, nell’ipotesi in cui il giudice dovesse comunque depositare la sentenza in un termine ulteriore a quello massimo previsto dalla legge. In particolare, occorre chiedersi quale diventi il termine entro cui l’imputato (e, quindi, il suo difensore) è ammesso a proporre l’impugnazione.
L’art. 585 c.p.p. disciplina tre termini: quindici giorni se la motivazione viene redatta contestualmente alla stesura del dispositivo; trenta giorni se la motivazione è redatta entro il quindicesimo giorno dalla pronuncia; quarantacinque nei casi in cui la motivazione venga redatta entro un termine superiore.
Tale norma non può considerarsi integralmente applicabile al procedimento dinanzi al giudice di pace. Si è già detto, infatti, che il termine ultimo entro cui il giudice di pace può depositare la motivazione della sentenza è quello di quindici giorni dalla lettura del dispositivo. Eventuali depositi oltre detto termine devono considerarsi indebitamente eseguiti e, in ogni caso, tardivi. Ne consegue, che le parti non potranno beneficiare del termine prolungato di quarantacinque giorni per proporre la loro impugnazione. Trattandosi, tuttavia, di un deposito tardivo, la decorrenza del termine si dovrà calcolare a partire dalla data di comunicazione/notificazione dell’avviso di intervenuto deposito.
Conclusioni
La giurisprudenza sul punto è univoca: “la previsione di cui all’art. 32, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 – per la quale il giudice di pace deve depositare la motivazione entro 15 giorni qualora non la detti a verbale – preclude a quest’ultimo la possibilità di autoassegnarsi un termine diverso e maggiore, ai sensi dell’art. 544 cod. proc. pen., con la conseguenza che, nel caso in cui la motivazione sia depositata oltre il quindicesimo giorno, e quindi fuori termine, l’impugnazione va proposta entro trenta giorni, decorrenti dalla notificazione dell’avviso di deposito, ai sensi degli artt. 548, comma secondo, e 585, comma primo, lett. b) e comma secondo, cod. proc. pen.” (Cass. pen. Sez. II, 27 settembre 2019, n. 50391).
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